Impressioni da Phnom Pehn

Pur essendo la capitale della Cambogia, Phnom Pehn è una città abbastanza disordinata in quello che, in teoria, dovrebbe essere il centro. Le insegne si accavallano forse più dei tuk tuk e dei suv parcheggiati sui marciapiedi. Gli odori sono forti, soprattutto la sera quando le strade sono piene di spazzatura. La pioggia qui è una doppia benedizione: abbassa un po’ la temperatura e lava via gli umori dell’immondizia abbandonata a mucchi sui marciapiedi. Ma se le strade hanno un aspetto un po’ shabby, i luoghi di culto sono un sacro luna park. O almeno questo è l’effetto che fanno a me, dato che al momento la mia sola esperienza asiatica è quella in Giappone e il contrasto mi appare impressionante. Non credo che in un tempio nipponico il Budda si troverebbe contornato da un’aureola di luci al neon e led colorati, con una cucina a fianco e gente che mangia beatamente sui gradini. Il rapporto dei cambogiani con il divino sembra essere molto più casual rispetto ai nipponici, anche se da alcune battute scambiate con i locali in pseudo inglese mi pare di capire che tutti fanno almeno un periodo come bonzi in un tempio. Si vede che qui il catechismo funziona così.

Spero comunque che nessuno si sia offeso quando mi sono messo a scherzare sul deretano delle mie amiche scimmie di pietra su una scala del Wat Phnom.

(Giotto)

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A dire il vero il Wat Phnom non mi ha colpito molto: un po’ santuario, un po’ mercato, con finti liberatori di pennuti addestrati al rientro in gabbia che stazionano all’ingresso e vari mercanteggiamenti all’interno. E comunque, il Budda con i led, fra tutti, non riusciamo proprio a mandarlo giù. Non l’abbiamo neppure fotografato. Era proprio brutto.

Certo, descritta così la città sembrerebbe poco invitante anche solo per una visita fugace, ma ci sono anche luoghi piacevoli, pacati e in alcuni casi tragicamente istruttivi.

Il nostro viaggio alla scoperta di Phnom Penh è iniziato infatti con comodo con una placida visita al Palazzo Reale, dove pare che di domenica sia anche possibile incontrare il re in persona. Sfortunatamente noi ci siamo andati di martedì e abbiamo dovuto fare a meno di questa esperienza monarchica. In compenso ci siamo goduti una piacevole visita alla Pagoda d’Argento in compagnia di pochi altri turisti.

Il palazzo nel suo complesso è gradevole, con abbondanza di superfici dorate, ma tutto sommato non stucchevole, anche se a dire il vero più che dagli edifici in sé siamo rimasti piacevolmente affascinati da alcuni particolari, probabilmente insignificanti per il resto del mondo.

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Uno è la concretizzazione di un ricordo d’infanzia: il tamarindo! Chi non ha mai mangiato i ghiaccioli fatti in casa con lo sciroppo di tamarindo non può capire l’emozione di trovarsi finalmente sotto uno di questi alberi e pensare ” cavolo, esistono davvero, non se lo è inventato la Fabbri!”

Un altro è il profumo favoloso dei fiori di un albero non identificato che avvolgeva l’aria intorno a questo Budda.Un po’ mi hanno ricordato una magnolia fiorita. Se ne sentiva l’odore a metri di distanza e sembrava quasi che l’aria lì intorno fosse più pulita.

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Uscendo dal Palazzo ci siamo fatte trascinate verso un giardinetto vicino, evitando offerte varie di beni e servizi dai vari figuri che stazionano di fronte all’ingresso. Per pura botta di fondoschiena, guidate dal dio della camminata randomica, entriamo quindi in quello che scopriamo essere un santuario con tanto di venerabile, venerando e venerato sacerdote anziano, attorniato da discepoli, che ci guarda passare con occhio distratto mentre gli altri gli si muovono intorno non si sa bene per fare cosa. E misure mignon, la postura e la pelata grinzosa del venerabile nonnetto fanno pensare alle scene tra Luke e Yoda su Deriabar.

Se tutto sommato il tempio esterno è un luogo silenzioso e raccolto, il tempio interno è sì silenzioso, è sì piu o meno raccolto, ma è un altro caso di Budda turboaureolato piazzato al fondo di una sala con pitture dai colori marcati. Qui un signore gentile ma un po’ male in arnese ci mette in mano un bastoncino di incenso, ci mostra come offrirlo alla divinità, ci piazza un braccialetto rosso al polso recitando una litania e ci invita a fare un’offerta, che ci auguriamo contribuisca al suo mantenimento più che a quello della sfavillante statuona.

Comunque, sarà l’ora serale, sarà l’ indubbia sacralità del luogo (elettro-Budda a parte), al Wat Botum regna un certa pace. Verrebbe voglia di parlare con i monaci, ma la tradizione locale impone limiti al contatto con il gentil sesso che ci sono oscuri e Giotto non parla né inglese, né khmer, quindi a malincuore rimandiamo, per non rischiare di offendere nessuno. Ci documenteremo in proposito alla prima occasione, dato che i monaci ci sembrano una interessante fonte di informazioni sulla cultura locale.

Il secondo giorno effettivo a Phnom Pehn è il giorno dei musei e del summenzionato Way Phnom, di cui non trovo particolari pregi, ma del quale ho apprezzato molto il negozio di artigianato interno.

Agganciato un tuk tuk driver simpatico che ci scorrazza praticamente per tutta la giornata, ci ritroviamo a girare tra una quantità spropositata di trimurti buddiste e statue di divinità hindu in stile locale, che a me un po’ ricorda quello di alcune statue egizie credo di datazione particolarmente remota. Questo stile e la ripetizione iconografica un po’ mi confondono, visto lo strano sincretismo locale per cui Budda è un’incarnazione di Vishnu (e non il contrario che si offendono!). E comunque io tifo per i naga. In fondo, questo è il paese dei serpenti.

La cosa bella è che mentre siamo nel museo si scatena uno strascico monsonico che ci blocca dentro una mezz’ora buona e trasforma i colori della corte interna da polverosi a brillanti. La mia scarsa capacità e quelle ancor più scarse del mio cellulare non rendono giustizia alla bellezza del contrasto tra verde e tetti bagnati.

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Per ora la sfiga è rivolta altrove e i rovesci ci trovano sempre al chiuso. Approfittiamo della “pausa pioggia” per riposare a un tavolino della corte e usciamo dal Museo Nazionale ad acquazzone finito.

Nonostante le nostre aspettative di cinghiali europei malfidati, il nostro driver ci ha atteso incurante della pioggia per portarci come concordato al museo Tuol Slang.

Di questa parte della visita a Phnom Penh non ci sono foto. Non ci sono neanche molti commenti da fare. Per le circa due ore passate in quella scuola/ mattatoio non abbiamo quasi spiccicato parola. Ci sono sensazioni che non si spiegano abbastanza bene a parole. Un eco del dolore che c’è stato in un luogo come questo secondo me rimane e riverbera anchdd se il luogo viene ripulito. Anche in uno spazio reso tollerabile al turista e in qualche modo didatticizato. Anche dopo decenni.

Dopo una giornata così non stupisce che il giorno seguente ci siamo infilati nel giro dei mercati. Un pò per vedere come sono, un po’ perché avevamo tutti bisogno di leggerezza. Cinghiali di pezza compresi.

Elena